Politico e Poeta d'altri tempi

  «Alla vista delle paludi del Basentello e del Bradano, del deserto della Murgia una lagrima brillò sull’occhio di Canio Musacchio; alla vista degli uomini piegati sulla terra e che nel campo vedeva all’alba, e lì li ritrovava a mezzogiorno e lì li salutava a tarda sera, l’instancabile pioniere pianse…

  «(Ad Irsina) Il lavoratore riscattò la sua voce, si perdette con le acque dei fiumi, né il suo sacrificio restò infruttuoso. Il lavoratore riscattò la sua dignità e il prezzo del suo santo lavoro di fronte al signore che scandalizzato impazziva per il maledetto socialismo che aveva reso uomini gli zoticoni; il latifondo scomparve, le paludi furono prosciugate; sotto la forza del braccio del nuovo contadino socialista la campagna non vide più il suo squallore e il paese vide le case nuove con la finestra, ove fiorì la rosa destinata all’occhiello dell’amoroso.»

  Alla Murgia, alla vita dei suoi abitanti, alle loro difficili condizioni, il professore dedicò più di un affresco. Nel luglio del 1949, scrisse: «Un senso di desolazione e di sconforto opprime l’animo, a mano che l’occhio spazia sulla lunga catena delle Murge che dal Garagnone degradano verso il Tavoliere foggiano. Piccole gobbe, grossi tamburi schiacciati dal cielo vasto e azzurro appaiono brulli e deserti all’osservatore che si affaccia sul poggetto di Sabaco.

Altamura, 1968.
Dino De Lucia con l'On. Le M.
Pellicani e l'Avv. M. Bolognese.

  Pietre, pietre, pietra! In cima, o sul fianco delle Murge, se ne sta tutto solo qualche alberello di fico selvatico o di mandorlo. Una macchia, come d’inchiostro, qua e là, con scarsezza di foglie e di rami, si staglia sul biancore della pietra.

   «Il pastore che conduce il gregge non trova l’ombra fresca d’una folta pianta o d’una fonte. Ma sfugge i raggi del sole cocente di luglio rifugiandosi sotto un ampio ombrellone che porta seco. Egli stesso lo ha lavorato con rami d’olivo e bacchette di canna. Il gregge vaga senza ristoro di erbe. Tra quelle pietre e sassi non scorre un rigagnolo, non sorge una fonte.

  «Le viscere della terra sono arse e bruciate. Neppure a primavera con le nevi di poco sciolte e lo zefiro tiepido, spunta il fiore; soltanto la spaccapietra si affaccia fra le rocce. La piana che si allarga ai piedi della catena montuosa anch’essa è priva di correnti d’acqua. E là, in quelle zone ove scorre un torrente, sorgono paludi che da anni ed anni, mietono vittime umane, onesti e laboriosi contadini, ignoti eroi che dal bisogno e dalla prepotenza del padrone furono costretti a bonificare con la zappa un lembo di quella terra paludosa.»

  E ancora: «Triste spettacolo quello che offre la regione interna murgiosa di Puglia e di Lucania! Gli uomini hanno il colore della terra cui sono piegati per molte ore, nella schiena una curva che col tempo impedisce al sofferente di drizzarsi. Rispettosi, ospitali e buoni si scoprono il capo quando ti avvicini e ti danno dell’eccellenza. Per loro chi sa leggere ed ha le mani lisce è un galantuomo. Essi non sanno immaginarsi un modo diverso di rispetto, poiché sono le tradizioni della famiglia. In questo senso sono rassegnati con fanatismo religioso al loro destino. Tutto ciò che è segno di progresso è dovuto al padrone ed al signore.  

  «I mezzi primitivi di lavoro, dalla falce al randello, dalla zappa allo schiacciatoio di pietra costituiscono ancora gli strumenti di aratura e di trebbiatura… L’uomo dorme la notte allo scoperto, sulla paglia per vigilare le spighe. Accanto è sdraiato il mulo o l’asino. Povere bestie hanno lavorato per sedici ore a girare, bendate e col carico dello schiacciatoio dietro, su un mucchio circolare di covoni.

  «Al centro il contadino, il capo coperto dal tradizionale cappello alla tirolese, in mutande lunghe sino alle caviglie, guida, passandosi le redini da una mano all’altra per non girarsi come una trottola, l’animale accompagnandolo con la voce. Il contrasto tra la ricchezza e la povertà è marcato; non ci sono tinte sfumate; non ci sono vie di mezzo. 

Altamura, Dino De Lucia
con i suoi studenti. 

  Sorge dallo spettacolo ingrato della natura e degli uomini la necessità di un mondo più equilibrato e ravvicinato.

  Questa necessità, se anche non appare al contadino padre che ormai non sa e non vuole più rassegnarsi ad una vita che non sia quella che da sessant’anni conduce, diviene una forza prepotente nei figli, i quali superati il fanatismo religioso e il sentimentalismo familiare, hanno acquistato nelle quotidiane lotte la coscienza di classe. Essi hanno rotto i primi anelli della catena secolare che li legava alla terra e l’incanto dei mercati umani.  

  «Le stelle occhieggiano nel cielo ancora e sulla piazzetta centrale del paese vagano nella penombra centinaia di giovani, braccianti e salariati, in attesa che qualcuno li comperi. Lo sconcio del mercato umano, purtroppo, sussiste ancora anche nei centri capitali del bracciantato. La lotta investe nel suo piano insieme al riscatto economico, quello morale, della personalità, è vero: ma è altrettanto vero che più feroci si oppongono le forze del male e dell’egoismo a reprimere i tentativi di avanzamento delle masse proletarie...»  
     

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